
Report Calcio 2021
ReportCalcio 2021Il censimento del calcio italianoRapporto Annuale sul calcio italiano, sviluppato dal Centro Studi FIGC in collaborazione con AREL (Agenzia di Ricerche e Legislazione) e PwC."L’effetto combinato della contrazione dei ricavi e dell’aumento dei costi ha determinato il peggior risultato netto dalla nascita del ReportCalcio... oggi è più che mai urgente favorire l’introduzione di modelli e strumenti di sostenibilità economica e finanziaria che rimettano al centro dell’attenzione la crescita esponenziale dei costi di un sistema così complesso, ma anche le grandi opportunità di crescita dei ricavi che il futuro sembra offrire. [...]"Andrea Samaja - Partner, PwC ItalyApprofondisci i key highlight del ReportCalcio 2021 al seguente link.

25a Annual PwC Global CEO Survey
PwC Global CEO Survey: forte ottimismo dei CEO italiani, l’89% prevede un’economia in crescita nel 2022.Andrea Toselli, Presidente e Amministratore Delegato di PwC Italia: "Fondamentale la fiducia nel futuro, che oggi si esprime nell’ottimismo sulla crescita dei ricavi e nella capacità di migliorare le proprie performance rispetto agli obiettivi net zero".Nonostante i numerosi venti contrari, dovuti soprattutto alla pandemia Covid tuttora in corso, i ceo a livello globale non sono mai stati così ottimisti negli ultimi dieci anni rispetto alle prospettive di una ripresa economica per l’anno a venire. Il trend vale anche per l'Italia: l’89% degli amministratori delegati (il 77% a livello globale) prevede un miglioramento, mentre solo il 10% (15% worldwide) si attende condizioni peggiori. Per quanto riguarda il Bel Paese, si stima una crescita nel 2022 del 19% rispetto ad un anno fa, quando era pari al 70%, mentre a livello globale aumenta di solo un punto arrivando al 77%. È quanto emerge dalla 25° Annual global ceo survey di PwC, che ha intervistato 4.446 chief executive officer in 89 paesi, di cui 123 nella nazione italiana, tra ottobre e novembre del 2021.Il Customer Trust Index mostra una correlazione tra la fiducia dei clienti, quella dei CEO e l’impegno per il “net zero”La fiducia non è mai stata così importante per il successo di un’azienda, ma averla e conservarla non è mai stato così difficile. Per la prima volta, il sondaggio di PwC ha creato un “Customer Trust Index” basato sulle risposte dei CEO a una serie di domande rispetto al comportamento dei loro clienti. Il sondaggio mostra una forte correlazione tra la fiducia e la sicurezza, in quanto i CEO delle aziende situate ai primi posti nel nostro indice sulla fiducia dei clienti sono anche quelli più sicuri rispetto alle prospettive di crescita nell’anno a venire. A livello globale, il 71% dei CEO delle aziende ai primi posti dell’indice è molto o estremamente sicuro sulle prospettive di crescita dei ricavi della propria azienda nei prossimi 12 mesi.Si riscontra una correlazione anche tra la fiducia e gli impegni verso il “net zero”: a livello globale è molto più probabile che i CEO delle aziende che figurano ai primi posti dell’indice sulla fiducia dei clienti siano a capo di organizzazioni che si sono impegnate in tal senso (il 29%), rispetto a quelle che si trovano in fondo alla lista (il 16%). I CEO delle aziende “a elevato livello di fiducia” sono altresì più propensi a guidare organizzazioni che hanno correlato al compenso risultati diversi da quelli finanziari. Rispettivamente, circa la metà, il 51% e il 46%, dei CEO a capo di organizzazioni in cima alla lista in termini di fiducia, hanno assunto un impegno a livello di metriche di soddisfazione del cliente e interazione con i dipendenti collegate ai bonus personali o agli incentive plan.I timori dei CEO a livello globale: rischi informatici, sanitari e volatilità macroeconomicaSe l’ottimismo dei CEO vola alto per la maggioranza, riscontriamo anche la piena consapevolezza delle potenziali minacce che potrebbero avere un impatto sulle aziende nei prossimi 12 mesi. I rischi informatici e sanitari rappresentano ancora le principali minacce sia per i CEO italiani che per quelli globali, identificate rispettivamente dal 41% (49% a livello globale) e dal 36% (48% a livello globale) dei CEO. Segue a ruota la volatilità macroeconomica, con il 34% dei CEO (49% a livello globale) che si dichiara molto o estremamente preoccupato per l’impatto potenziale che le oscillazioni del PIL, l’inflazione e le questioni riguardanti il mercato del lavoro potranno avere sull’anno in appena iniziato.Comprensibilmente, una percentuale elevata di CEO del settore dell’ospitalità e del tempo libero (il 75%) teme i rischi sanitari per l’economia, mentre il 49% dei CEO delle società in ambito energetico, delle utility e delle risorse considera il cambiamento climatico la principale minaccia per il 2022 (15 punti in più rispetto alla percentuale totale globale).La percezione nei confronti delle minacce varia a livello geografico: più della metà (il 58%) dei CEO della regione Asia-Pacifico è molto o estremamente preoccupato circa i rischi sanitari nel prossimo anno (fa eccezione la Cina, in cui solo il 42% dei CEO è molto preoccupato in merito). In confronto, solo il 37% dei CEO dell’Europa occidentale e il 44% del Nord America nutrono timori analoghi rispetto ai rischi sanitari. Viceversa, solo il 44% dei CEO della regione Asia-Pacifico è altamente preoccupato per i rischi informatici (l’Australia, al 71%, è l’eccezione degna di nota), mentre i CEO del Nord America mostrano un elevato livello di preoccupazione (56%; il 61% negli USA), al pari dell’Europa occidentale (50%; il 41% in Italia).Alessandro Grandinetti, Clients & Market Leader di PwC Italia: "Non distogliere l’attenzione da queste tematiche che andranno a definire la tipologia di mondo in cui viviamo"Alessandro Grandinetti, Clients & Market Leader di PwC Italia, afferma: “Oltre alle minacce sanitarie e informatiche, non si possono sottovalutare quelle, non meno importanti, derivanti dal cambiamento climatico e dalla disuguaglianza sociale. E’ fondamentale non distogliere l’attenzione da queste tematiche a più lungo termine, in quanto andranno a definire la tipologia di mondo in cui viviamo e che trasmetteremo alla prossima generazione. In particolare, una risposta efficace ad un tema quale la riduzione delle emissioni, che può e deve essere gestito a livello globale, richiede due condizioni tra loro inscindibili: da un lato la messa a fattor comune di risorse, tanto economiche quanto in termini di competenze specialistiche del capitale umano (meglio se eterogenee), e dall’altro la convergenza di visione rispetto al cambiamento. Tali condizioni possono essere soddisfatte tramite la collaborazione, industriale e culturale, tra imprese ed ecosistema, perché queste diventino acceleratore e volano del cambiamento”. Nicola Anzivino, EMEA Deals Clients & Market Leader di PwC: “I nostri CEOs stanno guardando in modo significativo ad operazioni di crescita: gli USA sono l’area preferita"Volgendo lo sguardo al di là del proprio confine nazionale per far crescere i ricavi nel prossimo anno, i CEO italiani ritengono che gli USA offrano il potenziale maggiore: per i prossimi 12 mesi, il 40% (41% a livello globale) li posiziona tra i principali paesi per le prospettive di crescita della propria azienda, in aumento rispetto al 39% (35% a livello globale) del 2021. Con il 36% la Germania è al secondo posto (+8 punti rispetto all’anno scorso; a livello globale la seconda destinazione è la Cina indicata dal 26% dei CEO), seguita dalla Francia (26%, +12 punti rispetto a un anno fa). Per i CEO degli USA, il Regno Unito è al primo posto per far crescere i ricavi nei prossimi 12 mesi: il 37% lo inserisce tra i mercati principali, più della Cina (26%); mentre per i CEO cinesi gli USA (29%) sono tra i primi paesi, subito seguiti da Australia (24%), Germania (23%) e Giappone (23%).Il sondaggio mostra che servono maggiori progressi per raggiungere gli obiettivi globali sul clima, poiché meno di un terzo dei CEO afferma che la propria azienda si è impegnata per ridurre le emissioni: solo il 28% (22% a livello globale) degli intervistati dichiara un impegno “net zero”, mentre il 36% (29% a livello globale) dichiara che la propria azienda sta lavorando per impegnarsi sul punto. Una percentuale analoga, il 31% (26% a livello globale), si è impegnata verso l’impatto zero del carbonio e un altro 28% (30% a livello globale) sta lavorando in tal senso.Il 29% dei CEO italiani (34% a livello globale) ha individuato nel cambiamento climatico una preoccupazione fondamentale per l’anno a venire, riflettendo la convinzione che questa non avrà un impatto sulla crescita dei ricavi sul breve termine. Sul lungo termine, tuttavia, garantire che l’impegno verso il “net zero” sia al centro delle strategie aziendali sarà essenziale non solo per mitigare i rischi del cambiamento climatico (il 66% dei CEO considera il punto “molto” o “estremamente influente”, 63% a livello globale) ma anche per andare incontro alle aspettative di clienti (69%, 61% a livello globale), investitori (47%, 51% a livello globale) e dipendenti (41%, 44% a livello globale).Gli impegni “net zero” tendono a essere principalmente associati a società più grandi e con un impiego maggiore di carbonio. A livello globale, tra i CEO le cui aziende si sono impegnate verso il “net zero”, quelle in ambito elettricità e utility (40% delle aziende) sono al primo posto, seguite da quelle in ambito energia (39%), circa 15 punti in più rispetto ai settori successivi: telecomunicazioni e bancario e mercati dei capitali, entrambi al 24%. Circa due terzi (65%) dei CEO, le cui aziende registrano ricavi di minimo 25 miliardi di dollari, si sono impegnati per il “net zero”, rispetto al 10% di quelle con meno di 100 milioni di dollari di ricavi.Oltre il 60% dei CEO italiani (oltre il 70% a livello global) dichiara che la propria azienda non ha ancora attivato politiche di sostenibilità quali impegni di “net zero” o di “carbon neutral”.Non stupisce quindi, che il 71% dei CEO (vs 57% a livello globale) pensi che la propria azienda non produca una quantità significativa di emissioni di gas serra (GHG); il 26% (24% a livello globale) dei CEO non sono certi che la propria azienda possa rispettare l’impegno preso, sempre il 26% sostiene che le loro industrie non sarebbero in grado di affrontare l’impegno dal punto di vista economico.A livello globale, la Survey di PwC ha rilevato che più l’impegno verso la decarbonizzazione è significativo per un’azienda, maggiori saranno le probabilità che gli obiettivi delle emissioni siano parte della strategia aziendale e siano collegate ai compensi dei CEO. Delle società in cui i CEO affermano di avere degli obiettivi “net zero” allineati con la scienza, il 70% include i target delle emissioni nella strategia aziendale (rispetto al 44% delle aziende con obiettivi non allineati con la scienza e al 9% di quelle senza alcun impegno “net zero” o “carbon neutral”), mentre un terzo di quelle con, o che stanno avanzando verso, un impegno “net zero” allineato con la scienza collegano le emissioni ai compensi dei CEO, rispetto a solo l’1% delle aziende senza alcun impegno “net zero” o “carbon neutral”.Toselli, Presidente e Amministratore Delegato di PwC Italia, conclude: “Nei 25 anni della Global CEO Survey, abbiamo visto i CEO italiani affrontare molte sfide. Oggi, i nuovi scenari prodotti dalla pandemia globale e dal cambiamento climatico stanno mettendo le imprese alla prova in modo inedito. Un elemento fondamentale è, però la fiducia nel futuro, che oggi si esprime nell’ottimismo sulla crescita dei ricavi e nella capacità di migliorare le proprie performance rispetto agli obiettivi “net zero”, presupposto per il raggiungimento di risultati solidi e a lungo termine”. Per ulteriori approfondimenti cliccare qui.

Ridurre l'impatto aziendale in azienda
Neutralità climatica al 2050. Oltre la politica c'è di più. Anzi serve di più. Ad esempio una declinazione del mondo produttivo e delle imprese che metabolizzi gli obiettivi che il mondo si è dato e provi ad aiutare facendo la propria parte e fornendo un esempio.PwC ha da poco presentato il suo piano Net Zero 2030, programma che mira a raggiungere la neutralità climatica aziendale entro i prossimi 8 anni.Per seguire l'intervista di Giovanni Andrea Toselli, Presidente e AD di PwC Italia, clicca qui

Industrial Manufacturing & Automotive M&A Trends 2021 & Outlook 2022
L’attività 2021 di M&A a livello mondiale nel settore IM&A è cresciuta rispetto al 2020 del 30% in termini di volumi e del 67% in termini di valore, superando anche l’attività ante pandemia. I fondi di Private Equity rimangono molto attivi, anche se vi è un leggero aumento della quota di operazioni corporate rispetto all’anno precedente.A livello italiano, la crescita del mercato IM&A è stata del 22% in termini di volume e del 28% in termini di valore (escludendo dal dato 2020 il megadeal Autostrade), con oltre 337 operazioni per un controvalore di $ 10,5 miliardi (calcolato sulle 73 operazioni con deal value pubblico). Il rapporto tra deal corporate e PE è rimasto sostanzialmente simile a quello dell’anno precedente: i primi rappresentano il 33% del volume, mentre i secondi il 67%.Electric VehicleAlcuni cambiamenti disruptive del settore, come ad esempio gli Electric Vehicle (EV) nel settore Automotive, determineranno una mutazione duratura della domanda di veicoli e una riconversione dei processi produttivi che porterà beneficio ad alcuni settori collegati, ad esempio quello della produzione di batterie elettriche e della componentistica auto ad alto contenuto tecnologico, mentre altri player, come quelli concentrati sulle propulsioni tradizionali, dovranno percorrere grandi progetti di trasformazione che a loro volta genereranno altre operazioni straordinarie.Questi settori promettenti continueranno ad attirare l’interesse sia dei fondi di Private Equity e sia delle aziende con abbondante liquidità, entrambi interessati soprattutto a operazioni capability driven. Il mercato delle operazioni straordinarie vedrà ancora alcune transazioni in distressed assets, rappresentate dalle aziende più impattate dalla pandemia che in passato hanno avuto problemi di liquidità o hanno puntato troppo su prodotti e tecnologie ormai obsolete.Le pressioni inflazionistiche sulle materie prime, i problemi di approvvigionamento riguardanti alcuni fattori produttivi (ad esempio: semiconduttori, chip, ecc.) e le tensioni geopolitiche rappresentano comunque la sfida più complessa da affrontare per le imprese del settore IM&A.

The Digital CFO: Using the Digital Finance Function Strategically
Lo Studio sui CFO: vi è un enorme potenziale per la trasformazione digitale della funzione FinanceLo studio di PwC evidenzia che per la maggioranza dei CFO intervistati la digitalizzazione della funzione Finance riveste la massima importanza. Tale processo sembra essere agli stadi iniziali nella maggior parte delle Società: solo per le grandi aziende (con un fatturato maggiore di 10 miliardi di euro) è più semplice intraprendere un percorso di digitalizzazione potendo far leva su budget più importanti e su personale dedicato a tali attività.“A distanza di un anno dal report Finance Transformation, questo nuovo studio condotto da PwC sui CFO di tutto il mondo dimostra ancora una volta che la digitalizzazione è una priorità per la maggior parte degli intervistati”Nicola Morlin, Partner Finance Transformation in PwC ItaliaIn molte delle società intervistate vi è un enorme potenziale per la digitalizzazione della funzione Finance e per i CFO la trasformazione della loro area rappresenta una grande opportunità nell’ottica di rafforzare il loro ruolo strategico.

No-Code Development Program
Il No-Code Development Program accompagna le organizzazioni nell’adozione di Google AppSheet per sviluppare un ecosistema di applicazioni aziendali. Grazie al programma di PwC, i team aziendali hanno la possibilità di creare, condividere e gestire applicazioni personalizzate, anche in assenza di competenze tecniche, digitalizzando i processi aziendali e rivoluzionando il modo in cui lavorano.Per approfondire la lettura clicca qui

Global and Italian M&A Trends 2021 e Outlook 2022
Il mercato mondiale dell’M&A ha segnato un altro record con oltre 62.500 operazioni annunciate nel 2021 (+24% rispetto al 2020) per un controvalore di US $5.100 miliardi sulle operazioni di cui è pubblico il valore, inclusi 143 mega-deal da oltre $5 miliardi (+59% rispetto al 2020).A livello italiano sono state annunciate 1.272 operazioni, con un aumento del 5% a volume rispetto al 2020, per un controvalore di $62.6 miliardi (-24% rispetto al 2020 che aveva visto un numero eccezionale di operazioni nel settore dei Financial services).A livello cross-settoriale, i macro-trend che guideranno gli investimenti nel 2022 saranno:L’ottimizzazione della supply chain, con operazioni di integrazione verticale sia a monte per assicurarsi materie prime / componenti strategici, ridurre il lead-time di approvvigionamento, sia a valle per controllare la distribuzione;Tecnologia e data analyticsTransizione energetica, con operazioni di investimento nel settore rinnovabili e idrogeno da parte delle corporations dell’oil & gasEconomia circolare e più in generale tematiche di sostenibilitàAggregazioni / Platform deals nei settori B2B del Consumer Markets ed in alcuni comparti industriali.Per ulteriori approfondimenti e analisi per industry clicca qui.

Fashion&luxury categoria top per gli investimenti nel 2022
Nuovi investimenti, sia da parte dei big player del settore che dai private equity, per supportare la riconversione dei modelli di business delle aziende moda. Un’attenzione crescente verso il second-hand. La nascita in Italia di poli aggregatori con focus sulla produzione. Questi sono alcuni degli aspetti che dovremmo aspettarci dal prossimo anno, secondo Erika Andreetta, partner PwC e responsabile dei servizi di consulenza nel retail&consumer goods, con un focus sul mercato del luxury&retail. Andreetta, terza protagonista del nuovo ciclo di MFF Voices, da sempre segue i principali player del Made in Italy a livello di leadership team Emea. Si è occupata in prima persona di importanti processi di internazionalizzazione di gruppi primari nel mercato cinese ed è stata membro attivo del CindiaDesk di PwC dal 2000 al 2006. Oggi, l’esperta cura il supporto ad aziende ad alto potenziale a sostegno del Made in Italy nel mondo e progetti di sistema che toccano le filiere produttive e i temi della sostenibilità.Come è stato il 2021 per il comparto del fashion&luxury?Guardando alle trimestrali che sono uscite da pochissimo possiamo dire che il comparto gode di buona salute. Rispetto al 2020 stiamo viaggiando intorno al +30% per il personal luxury goods. La moda è un settore con buone prospettive di crescita. Ci sono geografie che stanno performando molto bene e mi riferisco in particolare all’Asia-Pacific, Cina, Giappone. C’è poi un boom degli Usa. L’Europa e l’Italia soffrono ancora. Se vogliamo concentrarci sul fashion italiano il 2021 si chiuderà sopra gli 80 miliardi di euro. Sono numeri di poco sotto i livelli pre-Covid, anche l’Italia ha beneficiato del boom della Cina e chiuderà in maniera positiva l’esercizio. Sono sicura che l’ultimo quarter ci porterà delle belle sorprese in attesa poi di superare i livelli pre-Covid da metà 2022.Quali sono stati i gruppi e le maison più performanti? Qual è stata la strategia vincente?Hermès ha chiuso il terzo quarter a +40% rispetto al 2019, +31% rispetto al 2020 e, se guardiamo a tutte le geografie, è arrivato al +70% in Cina. I gruppi che hanno intensificato la distribuzione fisica e online in quel mercato stanno traendo buoni benefici. Restando in Francia, anche Lvmh con le sue maison è cresciuto del 40% nel terzo trimestre 2021 e tra i vari segmenti nell’orbita del colosso la moda è quello che è andato meglio. Focus importante sul mercato asiatico anche per loro, in primis per Dior e Fendi. Guardando al mercato domestico, un dato rilevante è quello di Moncler, che ha chiuso i primi nove mesi a +54% sul 2020. L’acquisizione di Stone island ha portato senza’altro dei ricavi ma la presenza in mercati come Usa e Cina è stato un acceleratore importante. Last but not least, vanno menzionate le performance degli e-tailer come Farfetch. In definitiva, i grandi stanno andando bene. Hanno fatto investimenti ad hoc nei mercati giusti per raggiungere un consumatore globale.Pensa che il trend dell'M&A che abbiamo visto quest’anno proseguirà anche nel 2022?Per il lusso è stato un anno di booming dopo un momento di arresto. Il trend continuerà anche perché c’è la necessità di avere fondi. Da un lato con operazioni corporate tra società del settore. Dall’altro con i private equity, che possono ben supportare la riconversione dei modelli di business delle aziende, che dovranno essere sempre più digital e realmente sostenibili. Per poter fare sostenibilità ed essere digitali, che vuol dire essere appetibili per le persone dai 40 in giù (millennials e gen Z, che ormai rappresentano più del 50% del consumatore finale) sono necessari investimenti. Il fashion&luxury è assolutamente la categoria top per gli investimenti del prossimo anno.Da Exor a Moncler... Potranno nascere dei poli del lusso in Italia come in Francia?Quello francese è un modello più di holding e quindi di investimento finanziario. Ci sono due belle cassaforti francesi, Lvmh e Kering, che hanno acquisito marchi facendoli crescere però lasciandoli liberi nei modelli di business, dalla parte stilistica fino alla parte di approccio al mercato. Se guardiamo alla realtà italiana, ci sono dei marchi che possono integrarne altri, quindi fungere da piattaforma anche per l’aspetto della filiera produttiva. L’Italia è la culla della filiera produttiva della moda nel mondo. Secondo noi nel prossimo futuro vedremo per lo più tipo di operazioni strategiche come quella di Florence, che sono vincenti. Aziende che si uniscono per creare dei poli produttivi e poi potersi presentare nel mercato con un’ampiezza di prodotto importante.E quali sono le stime per il 2022?Stiamo già crescendo. Le nuove tecnologie legate alla sostenibilità e all’economia circolare secondo le nostre stime porteranno il comparto entro il 2030 a raggiungere oltre i 5 trillion di dollari (5 mila miliardi di euro).Crescerà la quota di second-hand nel mercato?È un trend che andrà crescendo. In Italia, a partire dal 1° gennaio 2022 entrerà in vigore la normativa che impone la raccolta e il riciclo del tessuto tessile urbano, il che vuol dire che inizieremo anche culturalmente a dare nuova vita ai capi nell’armadio. I grandi gruppi stanno già basando una parte del loro business su questo trend. Un esempio è Zalando. (riproduzione riservata)